“Ho scoperto che i ricordi più felici sono di luoghi e non di persone. Dopo tutto le persone muoiono portando con sé una parte di noi, i luoghi no, loro vivono per sempre…”
Così scrive Sirin Husseini Shahid in “Memorie di Gerusalemme” tradotto in italiano da Marco Ammar e pubblicato nel 2022 da Edizioni Q.
Il romanzo “Jerusalem Memories” uscì per la prima volta nel 1999 con la prefazione di Edward W. Said. L’autrice scelse di scriverlo in inglese per trasmettere a un più ampio pubblico di lettori la storia della sua famiglia quindi del suo popolo, soprattutto per mostrare quanto fosse vivace e normale la vita in Palestina prima del 1948 e il trauma che la Nakba determinò nella vita di ogni palestinese.
Il libro tradotto prima in francese e in ebraico e solo nel 2009, dopo la morte dell’autrice nel febbraio del 2008, è uscito in arabo edito da Dar al-Shorouk, a dieci anni dalla prima pubblicazione.
L’attaccamento ai luoghi, l’amore per gli spazi abitati e condivisi con la sua famiglia, conferisce al romanzo quasi un ordine spaziale regolato dalla successione di ricordi della sua vita prima in Palestina e poi in esilio forzato.
Attraverso i personaggi reali, le cui vicende e immagini si fanno spazio nella memoria di Sirin, ripercorriamo un arco temporale che va dall’inizio dell’Ottocento fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Il lettore comprende subito che non si tratta del racconto di una saga familiare e non solo perché nella prefazione Edward Said ricorda che la narrazione personale e intima dell’autrice tocca la vita di persone comuni e distanti dal suo nucleo familiare, ma soprattutto per i rimandi ai contesti storici e politici che hanno determinato i cambiamenti catastrofici per tutti i palestinesi, come il mandato inglese e la successiva occupazione israeliana. Sullo sfondo di questi eventi si intrecciano le vicende personali e quelle del suo popolo di cui l’autrice ci narra.
Sirin nata a Gerusalemme nel 1920, apparteneva alla famiglia Al-Husseini, una storica e importante famiglia dell’alta borghesia palestinese, con un forte ruolo politico ed economico. All'età di quattro anni frequentò la scuola materna privata dell’American Colony, nel quartiere di al-Bab passò alla Scuola Islamica Superiore i cui docenti erano di confessioni religiose diverse e dove insegnava anche Melia, sorella del grande scrittore e pedagogista Khalil Al-Sakakini.
Agli inizi degli anni Trenta entrò alla Friends School di Ramallah e infine proseguì gli studi presso l’Università Americana di Beirut dove la famiglia era stata costretta a trasferirsi nel 1936 in seguito alla Grande Rivolta a cui suo padre aveva preso parte insieme a molti altri esponenti della famiglia.
La sua casa sorgeva nel quartiere di Musrara e ogni giorno ascoltava il suono delle campane della chiesa russa nel vicino quartiere di al-Maskoubiya. Nel tragitto tra casa e scuola passava davanti alle abitazioni degli altri membri della sua famiglia e nel romanzo si spinge fino a ricordare ciò che i suoi occhi e le sue orecchie vedevano e sentivano, offrendoci una descrizione di incomparabile delicatezza e accuratezza delle strade lastricate di Gerusalemme e dei suoni dei passi della gente che le viveva, facendoci toccare le pietre e le mura gerosolimitane.
A conferma che nel libro sono proprio i luoghi della sua città e della Palestina ad essere i veri protagonisti del libro.
Mentre scriveva, Sirin era testimone consapevole dei mutamenti che la città stava subendo e del tentativo di giudaizzazione in atto, in particolare in diverse opere letterarie dove Gerusalemme era spesso descritta solo come città dal passato antico e meta del progetto sionista, mai come la città araba con i suoi abitanti palestinesi e con la presenza di nuclei di famiglie tedesche, russe, greche, americane che non avevano agito come occupanti ma come amici dei residenti palestinesi.(1)
I nomi di questi luoghi oggi sono legati a ben altre tristi situazioni: “Al-Maskoubiya” è un carcere israeliano dove i prigionieri politici palestinesi vengono barbaramente torturati in violazione delle leggi internazionali; Musrara, un tempo il quartiere esclusivo delle comunità cristiane e delle famiglie musulmane agiate, tra le cui strade si è combattuto duramente nel 1948, venne spopolato dei suoi legittimi abitanti palestinesi e occupato da ebrei provenienti dall’estero; l’American Colony attualmente uno degli hotel più eleganti di Gerusalemme, fu costruito nella seconda metà dell’Ottocento, successivamente trasformato in un orfanatrofio, scuola e clinica intorno al 1880 da una comunità evangelica che si era stabilita a Gerusalemme.
Leggendo il romanzo, seguendo i ricordi dell’autrice, non si può far a meno oggi di riflettere anche sul ruolo delle comunità religiose: la comunità evangelica che gestiva un tempo l’American Colony era ben diversa dagli evangelici sionisti di oggi, soprattutto americani e seguaci di Trump, utilizzati da Netanyahu per la sua politica di sionismo di insediamento.
La Gerusalemme descritta non è un ricordo infantile ingigantito dalla nostalgia, piuttosto la certezza di immagini di luoghi e persone che costituiscono la storia del suo paese e del suo popolo. L’autrice ci rende spettatori privilegiati dei suoi lucidi ricordi anche quando essi hanno a che fare con altri luoghi la cui descrizione resta sempre intima ma precisa. Così scopriamo la bellezza della natura e della vita nei villaggi come quello di Sharafat vicino Gerusalemme, dove trascorreva le vacanze estive, o la casa di Gerico dove si recava per quelle invernali.
Dopo l’occupazione del 1967, Israele confiscò le case, i frutteti e la terra del villaggio per inglobarla nell’insediamento illegale di Gilo.
Un capitolo a parte è dedicato all’Orient House, fatta costruire a Sheikh Jarrah da Ismail Bey Hakki Musa Al-Husseini nel 1897: funzionario palestinese, molto colto e poliglotta, a cui le autorità turche avevano affidato il compito di Direttore dell’Istruzione a Gerusalemme e grazie al suo contributo fu aperta la prima scuola per ragazze in città. L’Orient House era una sontuosa abitazione tra le più belle della città e nel 1898 ospitò l’imperatore della Germania Guglielmo II di ritorno da Istanbul. Successivamente questo edificio è diventato luogo di incontri degli esponenti politici e intellettuali della città e di movimenti nazionalisti e infine sede della rappresentanza palestinese a Gerusalemme est, preso di mira dalle politiche repressive sia durante il mandato britannico sia sotto l’occupazione israeliana fino alla chiusura e confisca da parte di Israele nel 2001.
La sua chiusura, avvenuta dopo la pubblicazione del romanzo, non rappresentava una decisione arbitraria ma ha soprattutto l’obiettivo di cancellare la memoria dei palestinesi. Alla luce di questo ed altri eventi successivi alla pubblicazione del libro ci si rende conto di quanto esso costituisca una preziosa memoria storica le cui informazioni sollecitano un continuo confronto tra il passato e il presente e testimoniano il processo di cancellazione della Palestina sul piano storico, geografico e politico messo in atto da Israele.
Ai luoghi l’autrice collega la vita dei familiari e delle persone che li hanno abitati o le cui storie hanno incrociato la sua.
Infatti, uno dei suoi primi ricordi risale a quando aveva circa quattro anni ed è collegato alla sua casa di Gerusalemme e a suo padre (3) che, indicandole una fila di profughi armeni che si spostavano tra Gerusalemme e Gerico, le disse: “Se noi palestinesi non lavoriamo con tutte le nostre forze, toccherà a noi girare per il mondo in cerca di rifugio”.
L’autrice si sofferma su altre figure maschili: il nonno materno Farid Al-Alami, sindaco di Gerusalemme tra il 1906 e il 1909 e deputato di Gerusalemme nel Parlamento ottomano tra il 1914 e il 1918; lo zio materno Musa Al-Alami, un avvocato laureato all’Università di Cambridge; lo zio Musa Kazem Pasha Al-Husseini, presidente del Comitato Esecutivo e uno dei leader del Paese, capo del movimento nazionale palestinese negli anni Venti e suo figlio Abd al Qadir Al- Husseini, l’eroe martire della battaglia di Al-Qastel nell’aprile del 1948.
Maggiore spazio narrativo e descrittivo viene riservato alle tante figure femminili.
La sua famiglia musulmana era circondata da un’atmosfera cosmopolita grazie ai contatti con gli occidentali che risiedevano in città, ai viaggi di studio e di lavoro e all’impegno politico dei suoi membri. Le donne risentivano di questo clima e nei ricordi di Sirin si stagliano figure influenti e carismatiche. Innanzitutto sua madre, Nemat Faydi Al-Alami, una donna molto colta che parlava in italiano, francese e inglese e la cui cultura ha molto influenzato l’autrice.
La zia paterna Fatima, madre di Hind Al-Husseini, rimasta vedova e costretta a occuparsi degli affari di famiglia e dei figli. Viveva a Indibbe, un villaggio vicino a Jaffa e la sua casa dopo il 1948 fu trasformata in un kibbutz israeliano.
Ci racconta dei pomeriggi trascorsi con la cugina Hind, più grande di lei di qualche anno, e di quando questa le fece scoprire le riviste “La nuova donna” e “Il compagno dei piccoli” che venivano pubblicate a Beirut da Julia Dimashkieh (1), una delle prime donne arabe ad occuparsi di educazione e di giornalismo all’inizio del Novecento.
Con dolcezza descrive poi episodi legati a sua nonna materna, Zuleika, che aveva accompagnato a Vienna il marito nel 1921 invitato a partecipare a una conferenza, e la bisnonna Asma con la quale trascorreva le vacanze estive facendosi raccontare della Palestina dei suoi tempi, quando per spostarsi bastava avere un asino.
Nel romanzo, sempre collegate ai luoghi, si susseguono le vicende parallele di donne che non facevano parte della sua famiglia ma con le quali ha condiviso il destino comune della violenza del mandato e dell’occupazione. Innanzitutto la sua amica Miriam Mishaal, figlia del mukhtar del villaggio di Sharafat e poi la vecchia contadina Aisha Um Abed del villaggio di Al-Bireh a cui dedica un capitolo molto toccante.
Da Gerusalemme i ricordi si spostano a Baghdad, seguendo il percorso dell’esilio che per la famiglia iniziò nel 1936 e qui conosciamo Sitt Wagiha, la moglie del già citato leader Abd al Qadir Al-Husseini. Mentre il marito era stato rinchiuso dagli inglesi in un carcere iracheno, Sitt Wagiha aveva trasformato la sua casa, al centro di Baghdad, nel luogo di ritrovo dei membri della resistenza ricercati dalle autorità. Era il 1941.
Una figura femminile legata ad un altro luogo della diaspora, è Umm Yusef che Sirin incontrò anni dopo la Nakba a Beirut dove la famiglia si era trasferita più volte. Umm Yusef era una delle tantissime palestinesi dei campi profughi in Libano che sostenevano economicamente la famiglia svolgendo lavori umili. Era originaria di un villaggio vicino Haifa abbandonato nel 1948. Fu proprio grazie a lei che Sirin scoprì le difficoltà della vita dei campi profughi e la possibilità di realizzare progetti per aiutare le profughe palestinesi. Si iscrisse all’Unione delle donne palestinesi e con le sue sorelle minori, Malak e Joumana, entrò a far parte dell’organizzazione “Inaash al-Moukhayam al-Falastini” (Rinascita dei campi palestinesi) contribuendo al suo sviluppo. Negli anni Cinquanta AI-Inaash dava lavoro a circa 2000 donne palestinesi nei campi profughi in Libano con l’obiettivo di preservare la tradizione dei ricami palestinesi, allora già minacciati dalla propaganda dell’occupazione.
Il romanzo, suddiviso in 33 capitoli, corredato da fotografie dell’archivio di famiglia, ci fa conoscere la Palestina prima della Nakba e poi ci conduce nella realtà della vita dei Palestinesi nei luoghi della diaspora, ripercorrendo la storia e ritracciando la geografia della Palestina così com’era prima della violenta colonizzazione.
L’attivismo e l’impegno delle donne e degli uomini protagonisti del romanzo, le loro stesse vite, sono raccontate con amore e senza retorica perché, come scrive l’autrice, “la speranza in un avvenire migliore si può costruire solo su una vera conoscenza del passato”.
testo di Pina Fioretti
Note
(1)L’autrice cita alcuni membri delle famiglie dell’American Colony definendoli veri gerosolimitani e ricordando che alcuni di loro avevano acquistato le loro case da uno dei suoi antenati, Rabbah Husseini Effendi, e pertanto erano amici di famiglia.
(2) Julia Dimashkieh aveva fondato la prima rivista femminile in Libano ed era molto attenta al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Come ci fa notare l’autrice del romanzo, le pubblicazioni di Dimashkieh hanno certamente influenzato Hind Al-Husseini che ha dedicato la sua vita all’assistenza dei bambini e all’educazione delle donne dopo che nell’aprile del 1948 era riuscita a mettere in salvo 55 bambini rimasti orfani in seguito al massacro del villaggio di Deir Yassin condotto dai gruppi paramilitari ebraici dell’Haganà.
(3)Suo padre era Jamal al-Husseini, uno dei leader della rivolta del 1936-39 che fu politicamente e militarmente molto attivo anche dopo il 1948.
Dettagli bibliografici:
Titolo: Memorie di Gerusalemme
Autore: Sirin Husseini Shahid
Traduzione di: Marco Ammar
Casa editrice: Edizioni Q
ISBN: 9788897831471
Scrivi commento